Raccontare il lavoro
di Gianni Micheli - giovedì 06 maggio 2021 ore 22:11
In occasione del primo maggio e della Festa dei Lavoratori ho chiesto ad alcuni amici di dirmi cosa fosse per loro il lavoro e se avessero un aneddoto da raccontarmi e da raccontare ai lettori di questo blog. Sono gli amici e i colleghi che vedete nella foto, membri dell’Orchestra Multietnica di Arezzo, tra i protagonisti nel giorno della Festa dei Lavoratori, con Margherita Vicario, del concerto del Primo Maggio, occasione unica, per una formazione orchestrale di 30 elementi, per festeggiare i lavoratori, il lavoro e la possibilità stessa di poter lavorare insieme, tamponi permettendo.
Personalmente lavoro fin da quando ero un ragazzino. Lavoro estivo, soprattutto, per consentirmi di non pesare sulle economie familiari e di avere un mio gruzzoletto da spendere all’occorrenza. Nell’estate dei miei 14 anni, appena mi fu possibile, conquistai con soddisfazione il Libretto di Lavoro e, da quel tempo, di professioni ne ho toccate non poche: meccanico, barista, fruttivendolo, operatore ecologico, assicuratore, animatore, formatore quelle principali. Al di là di quella che poi è diventata la mia libera professione.
Detto ciò, per cultura personale e familiare, mi ritrovo con forza ad abbracciare l’Art. 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Il sostantivo lavoro unisce per me alla “fatica” della sua culla etimologica l’opportunità unica e insostituibile di artigianato del sé. Il lavoratore (la lavoratrice) cesella se stesso. Dà forma al proprio essere. Disegna in uno stesso tempo l’uomo (donna) che è, che vorrebbe essere e che aspira a diventare. L’uomo e il cittadino (ma anche l’amico, il compagno, il genitore). Mi sono sempre sforzato di vedere il lavoro, per il lavoratore, come un progetto d’ingegno e di libertà che parla la lingua del presente e del futuro pur edificando sul passato. E che racconta il lavoratore. Un principio, che pone in campo anche l’etica, messo a dura prova in questo anno di lavoro negato, di sporadici sussidi, d’incongruenze.
Lavorando ho rischiato di ferirmi seriamente almeno una volta per una mia disattenzione. Lavorando ho sognato di lavorare (che fatica!). Lavorando e studiando per il mio lavoro mi sono innamorato. Per lavorare ho investito nel mio lavoro tanto che se ad oggi togliessi quelle spese forse potrei dirmi: se non avessi lavorato avrei guadagnato di più. Eppure mi dico: se non lavorassi non saprei chi sono.
Potrei proseguire ma i tempi di un blog non sono quelli dell’inchiesta e dunque vengo a scrivervi i contributi dei miei amici, di chi ha trovato le parole per rispondermi anche di fronte al lavoro che non c’è, al lavoro di cui non si può parlare.
«Il lavoro per me è indipendenza e libertà prima di tutto e se hai la fortuna di lavorare in un ambiente positivo in cui sei rispettato puoi avere la possibilità di coltivare relazioni, passioni, obbiettivi personali e comuni. Il lavoro è per me questo: comunità, collaborazione oltre che un diritto ed un dovere.»
«Io lavoro da quando ero ragazzina, 15/16 anni, non ricordo neanche più e sono fuori casa da quando ne avevo 18. Quindi lavoro circa da 13 anni, sempre da dipendente e a contatto con il pubblico (commessa, barista, cameriera, tirocinante infermiera ecc.), di aneddoti ne avrei a centinaia, ti cito in breve il peggiore ed il migliore: - essere licenziata dopo aver subito una molestia sessuale dal titolare seguita da mobbing e maltrattamenti verbali sul posto di lavoro;
- avere la possibilità di vivere una maternità meravigliosa grazie ai titolari che non solo hanno accolto la notizia positivamente, ma hanno fatto in modo che io potessi prendermi tutti i tempi necessari per la gestione della mia vita da madre anche oggi che sono passati anni. So che dovrebbe essere la norma ma purtroppo ancora non lo è, quindi mi sento molto fortunata.»
«Il lavoro è, per me, la possibilità di poter mettere al servizio degli altri e di se stessi i propri talenti, i propri doni. Tempo fa un allievo, dopo molti giorni di quarantena preventiva, tornò a scuola di musica. Varcata la soglia dell'aula mi guardò e si guardò intorno e disse sorridendo: Finalmente! Quel "finalmente" significava che, forse, quello che affascina me sono riuscito a trasmetterlo a lui. Questa è la più grande delle ricompense, questa è la preghiera che rivolgo sempre: Fa che quello che affascina me possa affascinare gli altri.»
«Mi hai fatto pensare a una cosa bella, che mi immerge nel passato della mia giovinezza. Partirò quindi dal “ricordo legato al lavoro”, nello specifico, del lavoro nei campi che da piccolo mi capitava di vedere e sperimentare, anche se solo in forma di gioco. Ti parlo della prima metà degli anni ‘90, io avevo tra i 5 e 10 anni e la cosa che mi stupiva di più in quegli anni era vedere come, nel momento della mietitura del grano tutti i problemi, le liti, lo sparlare alle spalle del proprio vicino di casa si sciogliessero in un vivere sereno e armonioso. Era una magia.
Mio nonno aveva un bel caratterino e mi è successo varie volte di vederlo rincorrere un vicino con l’ascia in mano, perché aveva spostato il proprio recinto di mezzo metro, rubando centimetri ai suoi possedimenti e non parlarci per tutto l’anno, memore del torto subito. Poi, ecco il miracolo, lo stesso vicino sì presentava il giorno in cui la mietitrebbia entrava nel campo di mio nonno, per offrire il suo asino o semplicemente il suo aiuto fisico. Tutti quel giorno lavoravano nello stesso campo, ognuno con le sue possibilità, c’era chi metteva a disposizione gli attrezzi, chi il bestiame, chi portava l’acqua, chi il mangiare. E non c’era una cosa che era più importante di un'altra, c’era lo stesso entusiasmo in chi usava la mietitrebbia, come in chi impugnava il forcone o chi portava l’acqua.
Ecco, quando penso al lavoro mi viene in mente il giorno della mietitura, con il vivere sereno, nonostante la fatica fisica.»
«Ora sono in pensione. Mi ritengo fortunata di aver svolto un lavoro autonomo, dove ho deciso io le esigenze, le priorità e i ritmi di quello che era da fare.»
«Con l’arrivo della pandemia mi sono reso conto di quanto il lavoro per me fosse fondante. Ho vissuto l’assenza di concerti ed eventi non solo come una mancanza economica ma anche come una possibilità in meno per esprimermi. Il lavoro per me è la possibilità di comunicare il mio pensiero, le mie emozioni a chi vuole ascoltarle.»
«Ricordo con grande piacere il primo concerto fatto da compositore, dove per la prima volta ho avuto la possibilità di mettere me stesso al servizio dello spettacolo. La sensazione di fiducia e supporto ricevuta in quel frangente mi ha dato la forza di venire allo scoperto e cominciare un percorso lavorativo del tutto nuovo.»
«È il senso di responsabilità più alto che mi sia mai capitato nella vita, soprattutto nel rapporto con gli altri. Ovvero lavorare affinché, in regola, si possa adempiere a quello che è il senso civico dei diritti miei e degli altri. Una forma di alienazione più diretta da quello che è il mondo del lavoro in quanto tale ovvero lavorare per essere giusti nei diritti.»
«Nel 2000 sono diventato un professionista e il ricordo più incredibile di quell’anno che cambiò per sempre la mia vita lavorativa dai 20 anni ai 42 attuali fu che all’ufficio di collocamento - una parte fondamentale del lavoro - non riuscivano ad iscrivermi in un modo coerente ovvero non capivano se ero un solista o un orchestrale, un percussionista o un polistrumentista. Tutto finì con un’argomentazione molto interessante: scrissero “tamburellista” per essere più specifici. Poco dopo venni chiamato dalla nazionale italiana tamburelli, lo sport da spiaggia. Dovetti spiegargli che il mio lavoro era quello di musicista e dunque di artigiano.»
Gianni Micheli