Anzi
di Marco Celati - giovedì 29 settembre 2022 ore 08:30
Ivanoe da Lari, l’Arciduca del Castello dei Vicari, letta su QuiNews Valdera l’ennesima mia prolusione, ha commentato, non senza ragione, che sarei triste come un due novembre, il giorno dei morti. E, per di più, di pioggia. Sostanzialmente condividendo, ho suggerito: anche come un quattro novembre, il giorno dell’alluvione. Sempre di pioggia, naturalmente. Mi pare più in linea con gli sconvolgimenti climatici che intristiscono drammaticamente i nostri tempi. Il Principe Dagoberto da Palaia, Feudo di Montanelli e Villa Saletta, ha annuito. Mentre tace, per il momento, il Conte cerusico, Aleandro da Terricciola, dell’ordine della Baffona e Raveggiolo. Avrete notato che, anche nel Marchesato della Valdera, stiamo riscoprendo i titoli nobiliari, dopo l’interminabile vita e le ancor più interminabili esequie della Regina Elisabetta d’Inghilterra. Il Re Carlo, suo figlio e successore, probabilmente altri settant’anni non durerà, avendone già compiuti settantatré. Lunga vita a Re Carlo! Un altro funerale così lungo e mi sparo prima io.
D’altronde la vita è di passaggio e prima o poi passeremo e di noi resteranno eredi, affetti, parenti e qualche ricordo, memoria permettendo. Su un manifesto mortuario di un defunto, tornato alla casa del Padre, ho letto: “Quale gioia quando mi dissero: andremo alla casa del Signore!”. Un salmo della Bibbia. Poi però, il necrologio proseguiva con: “Ne danno il triste annuncio, la moglie e i figli”. Ma Allora?! Conoscevo quella persona, una persona davvero ammodo. Un credente nella vita del mondo che verrà. Eppure la contraddizione tra il mistero della vita e quello della morte resta ed è felicemente, tristemente umana. Di questo mondo al di qua.
Veniamo da un secolo che è stato detto breve, da governi ancor più brevi di un’epoca inquieta e tormentata e c’è tanta voglia di distrazione e di destrorsa conservazione. Così siamo stati accontentati: un effetto collaterale della democrazia. Ma democratici siamo e vorremmo, anzi, restare. Così almeno spero. Come spero che i miei venticinque lettori notino l’uso intercalato e sospensivo, vagamente avversativo, dell’avverbio “anzi”. Tipo: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi, d’antico”. Un fanciullesco riferimento pascoliano alla situazione politica attuale. Pure l’amico Vit, che sta per Vittorio, ormai incanutito, mi fa notare che, anche al Bar La Posta, quelli che votavano PD sono tutti morti. Da vecchio frequentatore faccio gesti apotropaici ed esorcizzo con un bel mi’ mori’!
È indubitabile ch’io sia triste, anzi, tristo. Incontrando una mia antica fiamma, al di lei cortese chiedermi come va, ho risposto il solito “invecchio” -che, beninteso, è sempre meglio di non invecchiare affatto- ma ho rincarato la dose con un “invecchio male, incupisco”. Al che ella, con femminina ed allusiva grazia, mi ha risposto: “non è che anche da giovane fossi tutta questa gran botta di vita!”. Touché. Anche la compagna conferma in sostanza questo fatto: io nasco anziano. E lei aggiunge anche che, ulteriormente senescendo, mi sarei piuttosto “incaerito”. Che non si sa di preciso cosa voglia dire, ma rende bene l’idea.
Un compagno di scuola dei tempi del Liceo, sempre a proposito della prolusione di cui sopra, si è complimentato per la buona scrittura, chiedendomi però di offrire ogni tanto, sicuro che ne sarei capace e “senza offesa”, anche qualcosa di "leggero, che non vuol dire superficiale”. Nessuna offesa, anzi, ha ragione il compagno. Quantunque il riferimento alle “Lezioni americane” di Calvino sia tanto evidente, quanto inarrivabile per il sottoscritto. E leggero lo ricordo, l’amico: magro, esile. Durante la corsa sulla pista di atletica si diceva di mettergli dei pesi in tasca perché con la velocità, in curva, prendendo vento, non ci volasse via. Professionista serio, competente, non meno ponderoso, è corso e corre ancora leggero nel mondo, negli anni e nella vita. Come risposta gli ho messaggiato: “Amore, gioventù, liete parole…”. E lui ha scritto: “Vedi?”. Però la poesia prosegue così: “cosa splende su voi e vi dissecca?/ Resta un odore come merda secca / lungo le siepi cariche di sole”. È di Sandro Penna e contiene nei versi finali, con un’espressione cruda, la tristezza del perdersi di amore e gioventù. Di quelle liete e lievi parole. Però la poesia del pasoliniano Penna è bellissima e il calore e la dolcezza delle siepi cariche di sole riassumono tutto, mitigano la perdita e la riconsegnano, umanissima e leggera, alla nostra consolazione. Così l’immagine evocativa addolcisce l’amarezza del trapasso. La dedico volentieri all’amico e ai compagni di scuola, ovunque essi siano. Perché, al giorno d’oggi, in tempi di virus, di guerra, di destra e di finanza, la gioventù e l’amore sono volatili come il FTSE MIB, il Nasdaq o il prezzo del Brent. E di leggerezza non superficiale ci sarebbe davvero bisogno.
Entriamo in autunno e già vorreste sentire, con il classico Fortini “la parola è questa: esiste la primavera, / la perfezione congiunta all’imperfetto”. Lo dicevo che ai suoi tempi esistevano ancora le mezze stagioni! Di nuovo aspetteremo i lampi della magnolia, mentre belli resistono gli oleandri in fiore, accesi e velenosi come i litigi degli amanti. Ma intanto il ragno trotta e fugge un cane, come la tua giovinezza. Così vanno i giorni e un altro giorno è andato. Malinconia. Sodade. Fortini, Guccini, le canzoni di Cesária Évora e di Leonard Cohen mi hanno fatto compagnia nel corso irregolare degli anni. Una volta, a Pisa, durante una presentazione cinematografica ho sentito Mastroianni esclamare con fierezza e pudore: “Ho settant’anni!”. E, anni prima, dire di Enrico Berlinguer, alla sua morte, che aveva quell’espressione malinconica, tipica delle persone per bene. Non che ci sia un nesso obbligato, però ho cercato di essere perbene, essendo malinconico e non sempre ci sono riuscito. Triste in compenso sono stato, resisto e me ne rido. In fondo che male c’è? Anzi. Tristezza, tristezza, mi punge vaghezza di te.
Marco Celati
Pontedera, Settembre 2022
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Il dipinto “Pioggia in Valdera” è dell’autore che ha citato Giovanni Pascoli, Francesco Guccini, parafrasato perfino una vecchia canzone di Paolo Pietrangeli e saccheggiato “I lampi della magnolia” di Franco Fortini.
Marco Celati