Camera 109
di Marco Celati - sabato 15 agosto 2015 ore 10:40
Scrivo perché l'aria della notte di fine luglio è fresca sotto questi monti e perché sono solo sul terrazzo di questa stanza d'albergo. Mi fanno compagnia un tavolino, due sedie, una chaise longue e la musica di una fisarmonica che, diversamente dal bandoneon, rende allegro, quasi ridicolo un tango argentino, altrimenti maledettamente serio e triste. Perché sono tornato qui, in questa stanza, la 109, non lo so. Cosa cercavo? Qualche traccia di me, qualche bel ricordo, forse. Cinque anni fa, proprio qui, c'eravamo già stati, ma cinque anni sono tanti dopo una certa età e la vecchiaia, quando piglia, è brutta assai.
La notte è quieta: davanti tre abeti maestosi si stagliano come un sol albero sulla macchia del bosco arrampicata sui colli dell'Appennino. Di sopra il cielo notturno, qualche nube e un chiaro di luna.
"Sott’‘e llacreme d’‘a luna, / na chitarra rossa ‘e vino,/ triste e sola se ne va./ Sente ‘e palpite d’‘a notte / dint’‘o core mio ca sbatte / e nu nomme vò’ chiammá. / Ma ll’ammore mio addó’ sta?". Canta una canzone napoletana, "Chitarra rossa".
Nell'albergo c'è una piscina azzurra: ti immergi e stai nell'acqua a guardare le colline verdi e il profilo grigio dei monti dove ognuno crede di vedere, di distinguere, di indovinare qualcosa: una bella addormentata, una bestia, un gigante disteso.
Scrivo di niente, delle sensazioni, della calma e della forza che rende il paesaggio, della nostalgia della vita: tutto sembra già stato e, alla fine, è stato niente. Resta di noi questa camera d'albergo di tanti anni fa, questa notte e qualcosa che ancora cerchiamo. E che, forse, credevo di trovare qui.
Resto muto nelle conversazioni: le cose di cui mi occupavo riguardano tutti, ma non interessano più a nessuno, le ritengono pesanti, noiose, quando non equivoche. Ho smesso di pensarci anch'io. Dopo essere stato tanto a contatto con il pubblico, soffro di agorafobia. Non mi sono mai fatto amici, sono vissuto in una società diversa e per una società solidale e ho pensato che questo bastasse o valesse di più, ma mi sbagliavo. Avevo te, ma poi le cose sono andate come sono andate, come vanno queste cose, come va il destino che attraversa le nostre vite.
L'Europa rischiava il default, se ricordo bene, e tra il rigorismo sterile tedesco e la spesa pubblica greca non sapeva trovare una via, né tra nazione e unità, un nuovo governo tentava di nuovo di rinnovare il Paese, un figlio mi s'era sposato, l'altro si dava da fare, tua figlia era all'estero in vacanza premio per la maturità. Qui c'erano i tuoi parenti, il bar di famiglia dove d'estate lavoravi da ragazza. E poi che altro c'è da dire? Che questi fiumi e torrenti scorrono tra le piante in greti sassosi e aprono qua e là distese di acqua che qui chiamano laghi, dove è piacevole fare il bagno. A questi laghi danno un nome. Di uno c'era da vergognarsi a chiedere informazioni: mi mandasti te da un gruppo di persone che incontrammo lungo il sentiero.
"Scusate, qui ci sarebbe un lago...?"
"Il lago del cazzo! Sì, più avanti dopo quegli alberi, là in fondo".
Così si chiamava, chissà perché. Forse perché non era un granché, come tante cose che capitano. Eppure quel pomeriggio ci facemmo il bagno e si stette bene.
Un altro si chiamava "lago del palo". Però non trovammo nessun palo. Ci sarà stato, un tempo, ma "l'acqua come noi pensa se stessa prima di farsi vortice e rapina" e la corrente delle piene invernali se lo sarà portato via, con tutto ciò che scorre.
Mi ricordo che quell'estate ero caduto preda dei pirati informatici. Un programma di Apple, così falso da sembrare vero, mi informava che il mio account era stato sospeso per motivi di sicurezza (sic) e mi chiedeva di fornire nuovamente i miei dati: mail, password. Anche la carta di credito con cui qualcuno, non senza ringraziarmi per aver completato correttamente la procedura, se ne andò, a mie spese, a Barcellona e qualcun altro in Marocco. La sorte è beffarda, ma in fondo pietosa di noi: di tre spese fatte on line l'istituto di credito bloccò l'unica che avevo veramente fatto per prenotare l'albergo della nostra vacanza toscana. Questo mi mise in imbarazzo con te e con la reception, ma fu così che ci accorgemmo dell'imbroglio. Altrimenti chissà per quanto ancora avrebbero prelevato a mia insaputa, quei simpatici hacker. Tu mi dicesti "sei un pollo gigante", c'è una rosticceria con quel nome in paese. Ma l'ispettrice di polizia a cui feci denuncia mi informò che trattavasi di programma informatico fraudolento del tipo "phishing". Il ph sta per f e fishing in inglese significa pescare: non ero stato un pollo gigante, bensì un pesce lesso, abboccato all'amo.
Non so se c'è molto altro da raccontare. In fondo va bene così: la vita non è che un racconto breve, il problema è raccontarlo bene.
Sono passati cinque anni da allora, ho settant'anni ormai, sono vicino alla media speranza di vita di un cittadino toscano di sesso maschile, mi resterà, sì e no, ancora una legislatura, dopodiché "scenderemo nel gorgo muti". Sono tornato nella stessa camera d'albergo, negli stessi giorni della nostra breve vacanza per ricostruire il frammento di un discorso interrotto, per capire se era davvero quel discorso che avremmo dovuto fare, per ricordare il motivo e il suono di parole non dette o pronunciate a sproposito. Aspettavo qualcosa o qualcuno: un'altra vita, un altro io, un'altra tu. Cercavamo quello che tutti cercano e si aspettano, cercavo l'amore.
31 luglio 2015
Marco Celati